Da La Stampa – Vivere a Roma L’AZZURRO CHE UCCIDE
Una storia infinita, quella del decoro urbano. Piena di sequel, che
tanto vanno di moda. Allo stessa stregua dei neon, veramente troppi,
di tanti esercizi commerciali che, come funghi atomici, trasformano
con le loro luci azzurrine il centro storico in una succursale di
Cartoonia. Avete presente la luce spettrale della sala degli specchi
del Luna Park? Ecco, quella. Solo che la stanza del gioco è diventata
realtà. Troppo neon fa male al decoro urbano per una semplice
questione di décor. «Anche il chiosco storico delle Grattachecche sul
Lungotevere, davanti al palazzo di Giustizia ne ha installato uno di
neon, di un bel blu perforante che acceca chi s’avvicina e dipinge di blu il povero platano che sta lì davanti. Eh si, il neon, soprattutto
azzurro, tira molto, fa molto faro antiaereo» dice Giorgio Muratore,
docente di storia dell’architettura.
«Del resto – continua Muratore – ogni giorno è una scoperta: basta
guardare i cestini dei rifiuti, frutto di un concorso internazionale,
per capire che è tutto un problema di conoscenza. Andrebbero cambiati
gli amministratori: sono loro che si fanno interpreti del mostruoso.
Ha visto i gazebo sulla strada di via Veneto? O quello di piazzale
Flaminio? Da brivido. Per non parlare di Campo dé Fiori peggio ormai di via Tuscolana e del centro storico in generale che sembra sempre
di più assomigliare agli spazi degli aeroporti. Il futuro di Roma si
gioca fuori dal centro: lì è tutto finto rustico e l’elemento storico è diventato stucchevole».
«Piace molto il neon forse in ragione del suo aspetto spettrale –
aggiunge Renato Nicolini -. Ma in questo siamo vittime del poco gusto
dei commercianti a cui però viene praticamente data carta bianca». E
allora giù con le gelaterie fantasmatiche, con le pizzerie al taglio
con fari da discoteca. «Quello che trovo contraddittorio – spiega
Nicolini – è la strana isteria dell’amministrazione comunale che si
scatena sulle operazioni di maquillage sulla città storica e poi dà ‘licenza d’uccideréal cattivo gusto in onore del com=
mercio. Non
vorrei passare per nostalgico ma negli anni ’20 le vetrine dei negozi erano la palestra dei grandi architetti di quel periodo. Mario
Terenzi, l’autore delle case di via XXI Aprile, Enrico Del Debbio
progettista del Foro Olimpico; anche Morpurgo che operò su largo
Augusto Imperatore: fecero tutti cose memorabili ormai rintracciabili
solo nei libri, a causa del loro carattere effimero. Insomma si
esercitavano sulla città facendo dei piccoli gioielli».
Certo, anche adesso le firme dell’architettura intervengono ma solo
per commissioni di alto livello, laddove l’immagine fa parte del
progetto globale e l’estetica è un passaggio fondamentale per il rito dell’acquisto o del benessere (solo alcuni esempi di boutique-
scultura: Massimiliano Fuksas per Degli Effetti a Roma; Rem Koolhaas
per Prada a New York dove ha ideato uno store che diventa teatro, nel
tanto pubblicizzato negozio su Broadway). Ma stiamo volando alto. Nei
posti in cui invece l’acquisto si risolve in un transito veloce che
unisce tutti, belli e brutti, dalla casalinga all’intellettuale,
dall’impiegato al direttore di banca nel consumo mordi e fuggi, dove i sensi vengono annegati dall’urgenza del boccone, la bellezza,
allora, sembra non contare più. E diventa una pura formalità da
risolvere più o meno brillantemente (questione di allineamento
interessante o scadente ai canoni del gusto estetico globalizzato)
nei vari ristoranti di design. «La contraddizione storicistica –
sostiene Nicolini – fa sì che si tolgano i marciapiedi a Campo déFiori in nome di un ritorno alla medievalità della piazza epperò si
sopporta la trasformazione della stessa in un shopping-mall a cielo
aperto, dove nulla è autentico, dove tutto è copia, tra l’altro di
una cultura importata, non nostra. E pensare che negli anni ’50
eravamo noi gli artefici del gusto, come ‘Vacanze Romané rispecchiava. L’ultima cosa inaccettabile è la barriera di colonnotti in travertino a piazza Trinità dé Monti. Per dissuadere le macchine, fare un corridoio: il virus della stupidità comunale non si placa».
Per cancellare questi inutili inestetismi, basterebbe solo un pò di sana semplicità. O, più praticamente, come suggerisce Alberto Maria
Racheli, docente di Restauro a Roma Tre, e autore di un Piano del
Colore che il Comune aveva affidato a Roma Tre per la pianificazione
delle coloriture dei palazzi da restaurare, basterebbe solo far
rispettare le regole. «Esiste una vecchia normativa – spiega Racheli –
che risale agli anni ’70 e che disciplina tutto questo.
Semplicemente, non viene rispettata. Non si esercitano i controlli
necessari, col risultato di cadere nel disordine più assoluto.
Secondo il vecchio regolamento la luce deve essere indiretta proprio
per non creare l’effetto Luna Park e le insegne a bandiera sono
vietate. Se poi si vuole proprio scegliere il neon, esiste quello a
luce fredda che, comunque, non deve superare l’arco della porta. Ma
un aggiornamento di quelle norme sarebbe necessario». Esistono casi
abnormi di «fai da te del mostruoso»: «Tra via Mantova e piazza
Alessandria è una distesa di insegne non a norma. E pensare che la
ristrutturazione della zona l’avevo fatta io» ricorda rattristato lo stesso Racheli.