PROPOSTA DI MAPPATURA SPETTROSCOPICA
DEI SITI ASTRONOMICI
di Stefano Rosoni - Università degli Studi di Ancona
Circolo Astronomico Dorico "Paolo Andrenelli" - c.p. 70 - Ancona
stefano@ascu.unian.it


SOMMARIO

Oggi è sempre più necessario conoscere e controllare l’inquinamento luminoso.

In questo lavoro viene proposto un nuovo metodo di osservazione e misura del fenomeno, nel tentativo di quantificarlo esattamente per consentire poi agli addetti ai lavori, agli studiosi ed ai tecnici di valutare caso per caso e di confrontare il grado di inquinamento di ogni sito partendo dall’esame della sua mappa spettroscopica.

Lo scopo dell’intervento è proporre e sottoporre all’attenzione della comunità scientifica questo nuovo metodo, come prima ipotesi nella ricerca del miglior protocollo da seguire.

Basandosi sull’uso di strumenti ottici piuttosto semplici, come lo spettrografo ed il microdensitometro, il metodo prevede la conoscenza delle caratteristiche di risposta del rivelatore utilizzato, ed introduce una serie di criteri organizzativi per la raccolta più razionale delle misure, anche in funzione della migliore economia e praticità della procedura.

Per consentire la confrontabilità con misure di altri ricercatori il metodo qui proposto cerca di raggiungere la calibrazione assoluta degli strumenti introducendo per essi un nuovo criterio di taratura, che consenta di effettuare la raccolta dei campioni con lo spettrografo in una sola passata, evitando ogni volta la utopistica "misura del solo fondo cielo" che andrebbe poi sottratto, sempre ogni volta, alla misura globale presa.

IL SISTEMA DI RIFERIMENTO

Per realizzare la mappa spettroscopica del cielo di un sito, nell’ambito della finestra ottica, magari estesa alle vicine regioni infrarossa ed ultravioletta di quel tanto che ci consentono le attuali pellicole fotografiche o gli altri mezzi rivelatori come i CCD e le cellule fotoelettriche, conviene adottare il sistema di coordinate altazimutale avente come origine l’osservatore, perché solidale con il fenomeno disturbante che si va ad esaminare ed invariante rispetto ad esso; per "mappa spettroscopica del sito" intendo la rappresentazione delle intensità I = I(q ,j ,l ) della radiazione elettromagnetica incidente in funzione delle coordinate q e j , che rappresentano la direzione di provenienza, e della lunghezza d’onda l nell’ambito di una determinata finestra spettrale D l ; si possono poi introdurre, se utili allo studio, altri parametri di interesse (polarizzazione, variazioni temporali, flickering, ecc.); trattandosi quindi di una funzione di almeno tre variabili (le due coordinate spaziali altazimutali e la lunghezza d’onda), questa I(q ,j ,l ) si dovrà rappresentare su più grafici a due dimensioni, nei quali le coordinate altazimutali verranno poste sugli assi cartesiani ortogonali o in un diagramma polare, mentre sarà parametrizzata la lunghezza d’onda.

LA STRUMENTAZIONE

Il metodo prevede l’impiego di uno spettrografo per il campionamento dei dati, di un rivelatore per il loro immagazzinamento, che nel nostro esempio sarà la pellicola fotografica, e di un microdensitometro per la successiva riduzione; come rivelatore si potrebbe ugualmente impiegare altra strumentazione, come per esempio un CCD collegato al suo computer tramite la scheda di acquisizione; altrimenti il tutto può essere sostituito da una più economica cellula fotoelettrica in abbinamento a diversi filtri a bande passanti sufficientemente strette e contigue (ma sempre con larghezze minime dell’ordine di 103 angstrom): i filtri Wratten di gelatina della Kodak, (purché non siano fluorescenti) o quelli della Schott in vetro; se però si volessero bande passanti di qualche centinaio di angstrom o inferiori, occorrendo filtri interferenziali, assai costosi, cadrebbe il risparmio e quindi la convenienza del loro utilizzo.

Lo spettrografo sarà formato da una sezione disperdente o spettroscopio e da una sezione fotografica (figura 1), per analizzare la radiazione che arriva sulla sua fenditura entro l’angolo solido a c definito dall’apertura relativa del collimatore.

A seconda dell’ampiezza dell’angolo di misura a m scelto per effettuare il campionamento, lo strumento dovrà essere volta per volta preceduto da un diverso tubo conico paraluce che ne limiti a tale angolo la visibilità dalla fenditura, sia con lo scopo di proteggere la stessa dalle luci provenienti da direzioni indesiderate, cioè esterne all’angolo di misura, che per diffrazione potrebbero diffondersi da questa all’interno dello spettroscopio alterandone le letture, sia con quello di confinare la direzionalità dello strumento, portando l’angolo di misura dal valore intrinseco a c, caratteristico dello strumento, al nuovo valore corrente a m, scelto per l’esplorazione di ogni campione, che è l’angolo o cono entro il quale la luce entra effettivamente nello spettrografo.

Per semplicità di progetto, se la dimensione della fenditura non è troppo grande rispetto al diametro del collimatore, questi angoli solidi a c ed a m si possono pensare come coni di rotazione, ed è evidente che, per avere la massima copertura di cielo senza sovrapposizioni, a m dovrà ogni volta essere uguale al passo angolare a p con cui si vuole effettuare il campionamento. Inoltre, poiché lo spettrografo accetta soltanto la radiazione che arriva sulla sua fenditura entro l’angolo solido a c definito dall’apertura relativa del suo collimatore, vanno distinti i seguenti tre casi.

1) Se la zona di cielo che si vuole studiare con una singola esposizione è esattamente coincidente con tale angolo solido, cioè se a m = a c, allora l’impiego del paraluce già detto, avente uguale ampiezza, ha il solo scopo di proteggere la fenditura da luci esterne a tale angolo, che generando fronti d’onda per diffrazione sulla fenditura stessa inquinerebbero la raccolta dei campioni all’interno dello strumento.

2) Se invece questa zona è meno estesa, cioè se a m < a c, allora sarà opportuno usare un diaframma o tubo paraluce adeguatamente più ristretto, che consenta la visibilità del solo angolo solido di misura a m, sia a scopo protettivo, come nel caso precedente, che limitativo, cioè per evitare di includere nella misura corrente zone di cielo spettanti alle misure attigue.

3) Se infine la zona della misura è più estesa, cioè se a m > a c, oltre al diaframma o tubo paraluce, che per consentire la visibilità di tutto l’angolo a m dovrà essere adeguatamente più largo, si dovrà impiegare tra questo e la fenditura uno schermo diffusore (per esempio un vetro smerigliato); però questo caso, se possibile, è da evitare, perché la presenza del diffusore comporta inevitabilmente una grossa perdita di luminosità dello strumento.

FIGURA 1: Lo strumento campionatore (in corso di definizione)

La dispersione dello spettrografo e la sua risoluzione devono essere calcolate in modo da raccogliere tutto lo spettro in un solo fotogramma nel senso della lunghezza, per non dover ripetere più volte il campionamento nella stessa direzione, cosa che introdurrebbe nuovi errori e nuovi problemi; tale spettro sarà contornato sopra e sotto da spettri di confronto a righe, ottenuti per scintilla subito dopo la posa, sempre attraverso la medesima sezione disperdente.

La dispersione lineare media che si otterrebbe per far comparire sullo stesso fotogramma 24x36 mm uno spettro esteso da circa 13000 Å (estremo infrarosso registrabile fotograficamente) fino a circa 3000 Å (ultravioletto), risulterà di:

(13000 Å – 3000 Å)/36 mm = 278 Å / mm

mentre se il formato della pellicola fosse di 60 x 90 mm, si avrebbe:

(13000 Å – 3000 Å)/90 mm = 111 Å / mm

valore decisamente più interessante ma legato ad un formato meno pratico e versatile; inoltre nel formato 35mm è reperibile una varietà assai maggiore di emulsioni rispetto agli altri formati.

Questi valori sono però poco realistici, per la dispersione non lineare dei prismi e dei reticoli, anche considerata, per questi ultimi, la notevole estensione (10000 Å) dello spettro investigato: anche per questo ritengo che un prisma, realizzabile in fluorite o vetro speciale per la trasparenza nella regione ultravioletta, sia la soluzione migliore; un reticolo, certamente più costoso, potrebbe comportare la presenza disturbante degli spettri di ordine superiore, se non previsti e confinati in fase di progetto, che sovrapponendosi a quello utile falserebbero i risultati.

IL CAMPIONAMENTO

Esso consisterà nella esposizione di un fotogramma di pellicola per ogni campione, e darà luogo ad uno spettro a righe relativo alle radiazioni di tutte le lunghezze d’onda della finestra ottica scelta inizialmente e provenienti da una medesima direzione, che è quella dell’asse dello strumento.

Questa semplice operazione sottintende diverse ipotesi tutt’altro che ovvie:

  1. che esista, in prima approssimazione, una relazione di proporzionalità fra l’intensità della radiazione che colpisce la pellicola e l’annerimento della stessa;
  2. In pratica non è così, sia a causa della mancanza di reciprocità delle emulsioni sensibili, sia in tutti quei casi nei quali l’annerimento oltrepassa il valore di saturazione. Tuttavia l’uso dei calcolatori rende oggi spedito il calcolo dell’irraggiamento a cui è stata sottoposta una emulsione fotografica, nota l’opacità misurata sul negativo e la curva caratteristica dell’emulsione. Se l’esposizione avesse prodotto la saturazione, almeno nel caso di sorgenti puntiformi, potrebbe ottenersi ancora una buona stima dell’irraggiamento ricevuto attraverso la cosiddetta "point spread function"; per le righe spettrali potrebbe essere usata un’analoga funzione. Nel caso dello studio spettroscopico dell’inquinamento luminoso la saturazione potrebbe aversi solo per qualche sorgente molto brillante. Al convegno sui telescopi Schmidt, tenutosi qualche anno fa a Bandung, fu presentato un lavoro in cui si dimostrava, per l’emulsione fotografica, una dinamica di 64000 livelli di grigio, valore di tutto rispetto, confrontabile con i migliori risultati forniti dai CCD. Occorre però sottolineare la complessità dello studio fotografico per il suo particolare processing, sia in fase di sviluppo per ottenere un negativo corretto, sia in fase di digitalizzazione ed analisi dello spettro ottenuto.

  3. che l’esposizione sia assolutamente uguale per tutti i campioni prelevati.
  4. Tale vincolo potrebbe essere assai difficile da rispettare, visto l’ingente numero di esposizioni da effettuare;

  5. che lo strumento campionatore, di qualsiasi tipo e costituzione, sia stato preventivamente tarato.
  6. Taratura da farsi sempre rispetto ad uno stesso riferimento o "valore zero" delle intensità di radiazione campionate;

  7. che non esistano limiti di spesa per questo lavoro di ricerca.

Si prevede in generale il consumo, tra primi tentativi, prove, fallimenti e campioni validi, di centinaia di fotogrammi di pellicole diverse e di varie sensibilità spettrali, e l’impiego di moltissime ore di lavoro per la raccolta e la riduzione dei dati.

Per superare le difficoltà attribuibili alla pellicola fotografica può essere di grande vantaggio sostituirla per esempio con un CCD collegato al computer tramite la sua scheda di acquisizione.

La sostituzione comporterà un cambiamento di metodo nell’acquisizione dei dati e nel successivo lavoro di riduzione, operati stavolta dalla scheda del CCD e dal computer che la supporta, con risultati sostanzialmente identici (fatte salve le già menzionate complicazioni della pellicola fotografica) ma molto più veloci e affidabili; infatti l’uso di pellicola fotografica comporta il gravoso compito di ottenere sperimentalmente, ogni volta che si inizia una nuova pellicola o un nuovo pacco di lastre, la forma della curva di risposta della stessa (annerimento contro intensità incidente). Questa risposta varia a causa di molteplici fattori, sia ambientali che costruttivi, compreso lo stato di conservazione della singola confezione, tanto più se si tratta di pellicola ipersensibilizzata, e persino le condizioni di sviluppo giocano a tale riguardo un ruolo non trascurabile.

Comunque lo si faccia, il rilevamento sarà discreto e consisterà nella esposizione di tanti fotogrammi per quante sono le direzioni da esplorare in tutto l’emisfero celeste visibile dal sito in questione, scandagliate con passo di campionamento a p che deve coincidere con l’angolo solido di misura a m scelto per ridurre al minimo la superficie di cielo risultante dai ritagli non esplorati e per evitare che una stessa porzione di cielo venga campionata più di una volta.

Però più stretto si sceglie l’angolo a p = a m, per migliorare la definizione della mappa risultante, più grande dovrà essere il numero dei campioni da raccogliere, dipendendo dal reciproco del quadrato del passo angolare a p.e poi anche la durata della posa, dipendendo dal reciproco della superficie di cielo inquadrata, varierà in ragione inversa del quadrato di a m, per cui si conclude che, sempre e solo se a p = a m, la durata totale di questo lavoro è inversamente proporzionale alla quarta potenza del passo di campionamento a p, e quanto più questo fosse piccolo, tanto e tanto più vasto e complesso sarebbe il lavoro totale.

Inoltre, qualora si raccogliessero i campioni seguendo la trama delle coordinate altazimutali, a causa del restringimento dei cerchi azimutali con il crescere dell’altezza h sull’orizzonte, rimanendo a p costante, si avrebbe sempre maggiore sovrapposizione tra misure adiacenti procedendo verso lo zenit, e quindi si incorrerebbe comunque in un errore di tutte le misure, a meno che non si provveda a variare a p, e di conseguenza anche a m, in ragione delle dimensioni stesse dei cerchi azimutali, e cioè proporzionalmente a cos(h), ma non mi sembra un metodo consigliabile, perché così si dovrebbero ogni volta cambiare sia il paraluce dello strumento che la durata della posa, introducendo sempre più complicazioni ed imprecisioni.

E’ necessario quindi limitare al minimo indispensabile il numero dei campioni, razionalizzando contemporaneamente la loro disposizione; il problema è ancora allo studio, per cui mi limito soltanto ad elencare qui tre possibili criteri organizzativi per la raccolta più razionale delle misure, anche in funzione della migliore economia e praticità della procedura:

  1. operare una scansione che interessi una fascia rettangolare in proiezione di Mercatore, sorgente dall’orizzonte, estesa per l’intera sua lunghezza di 360° ed alta fino al polo oppure fino ad un certo valore massimo hM, organizzata cioè secondo le coordinate altazimutali rettangolari, con a p ed a m uguali tra loro e proporzionali a cos(h), ed una seconda zona circolare, che parta dall’altezza minima hM ed arrivi concentrica fino allo zenit, a guisa di calotta polare, nella quale il campionamento risponda ad un criterio geometrico di celle adiacenti, come in un nido d’ape (struttura compatta);
  2. adottare quest’ultimo criterio (struttura compatta di celle adiacenti) per tutto l’emisfero sopra l’orizzonte, cioè ponendo hM = 0;
  3. effettuare i campionamenti lungo i vari cerchi azimutali orizzontali, distanti tra loro di un angolo uguale al passo di campionamento a p, partendo dal cerchio orizzontale alto a p/2 sopra l’orizzonte e tenendo presente l’esigenza di finire con un campione centrato sullo zenit.

RIDUZIONE DEI DATI CAMPIONATI E COSTRUZIONE DELLA MAPPA SPETTROSCOPICA

Da ogni campione spettrale raccolto fotograficamente mediante lo spettrografo, e relativo ad una coppia di coordinate, occorrerà ricavare, dalle misure effettuate col microdensitometro, le densità fotografiche corrispondenti e, nota la curva caratteristica dell’emulsione per la zona spettrale considerata, trasformare queste densità in intensità; dopo questi passi si potrà tracciare un diagramma spettrofotometrico I(l) che presenti in ascissa la lunghezza d’onda l ed in ordinata l’intensità registrata I della radiazione. Da questo sarà già possibile individuare le più buie e favorevoli finestre spettrali del cielo da valutare.

Raggruppati insieme i campioni spettrali di un medesimo azimut, si potrà poi ricavare un diagramma composto, che chiamerò "diagramma spettrofotometrico azimutale"; esso comprenderà tante diverse curve I(l) per quanti saranno i campioni spettrali raccolti alle diverse altezze sul medesimo azimut, cioè per tutte le direzioni dall’orizzonte allo zenit che giacciono sul medesimo piano verticale; questo nuovo diagramma risulterà parametrizzato per le altezze, perché il microdensitometro ritraccerà sullo stesso una nuova curva I(l) per ogni ulteriore campione spettrale dello stesso azimut ma di diversa altezza.

L’utilità di un tale diagramma sta nella possibilità di verificare come in genere l’inquinamento luminoso sia sempre più forte man mano che dallo zenit ci si avvicina all’orizzonte, e di controllare l'entità di questo fenomeno alle diverse lunghezze d'onda, oltre alla possibilità di confrontare siti diversi individuando quelli meno compromessi.

In modo del tutto analogo si potrebbero raggruppare insieme, a scopo di studio, quelle misure I(l ) relative ad una medesima fascia di altezze, individuando così corone circolari di cielo concentriche allo zenit e di spessore conveniente.

L’insieme di tutte le misure che definiscono i diversi diagrammi spettrofotometrici I(l ) concorrerà a formare la mappa spettroscopica del sito, vale a dire la rappresentazione della intensità della radiazione elettromagnetica incidente sul sito stesso I(q ,j ,l ), resa in funzione della direzione di provenienza e della lunghezza d’onda.

Grazie ad essa si potrà dedurre a prima vista, per tutti i siti, se e quanto siano possibili l’osservazione, la fotografia, la fotometria o altri tipi di indagine degli oggetti celesti che interessano, nonostante l’inquinamento luminoso, e a causa di esso se sia anche necessario l’impiego di filtri a banda stretta per isolare una finestra spettrale data (l2 - l1); scelti allora diversi valori discreti di l i presi ad intervalli regolari sulla scala delle l, per individuare minuscole finestre spettrali adiacenti

D l i = [l i - l i-1],

tutte di uguale larghezza pari alla differenza tra due successive l i e sufficientemente ristrette da poterle considerare, per i nostri scopi, come regioni spettrali monocromatiche; e dopo aver fatto questa selezione su tutti i diagrammi spettrofotometrici, si potranno realizzare mappe spettroscopiche "monocromatiche" del sito per le date finestre spettrali stabilite, in coordinate rettangolari oppure polari, che riportano sugli assi, per passi discreti, le coordinate spaziali (nel nostro caso azimut A ed altezza H) e punto per punto le intensità campionate della radiazione, mediante rappresentazione grafica di chiaroscuri oppure numerica.

La mappa spettroscopica globale di un sito, concepita come riunione delle mappe spettroscopiche monocromatiche, raffigurerà punto per punto le zone di cielo contenenti maggiore o minore inquinamento luminoso, riportando mediante regioni contrassegnate da sfumature, ombreggiature, falsi colori ed isofote tarate, le corrispondenti intensità della radiazione e le relative lunghezze d’onda, analogamente alle cartine geografiche raffiguranti i rilievi montuosi e le profondità marine, con zone di diverso colore e di diversa intensità limitate tra loro da curve di livello, approssimando a monocromatiche le ristrette finestre spettrali scelte in precedenza.

TARATURA DEGLI STRUMENTI

L’esigenza della taratura degli strumenti,è dovuta ai seguenti inconvenienti:

1) che due mappature del medesimo sito effettuate con due strumentazioni diverse oppure in tempi diversi e con la medesima strumentazione, sempre a parità di condizioni ambientali, diano luogo a due mappe differenti per intensità perché le esposizioni nella campionatura sono state diverse (indeterminazione della curva di risposta globale dello strumento in funzione della intensità luminosa incidente);

2) che diverse strumentazioni utilizzate per eseguire le mappature, anche a parità di esposizioni, diano ancora luogo a mappe differenti, questa volta però nella risposta spettrale alle varie lunghezze d’onda, perché diverse sono le sensibilità spettrali dei vari tipi di trasduttori utilizzati (indeterminazione della curva di risposta globale dello strumento in funzione della lunghezza d’onda della radiazione incidente);

3) che non avendo stabilito convenzionalmente uno "zero" per la scala delle intensità della radiazione osservata, non si riescano a confrontare tra loro le varie mappe spettroscopiche dei vari siti da paragonare, cadendo così nel vuoto tutta l’utilità di questo lavoro (mancanza di una calibrazione rispetto ad unità di misura anche arbitrarie, ma comunque rapportabili allo strumento, o di una calibrazione assoluta, che consentirebbe di esprimere le misure effettuate dallo strumento, già corrette per le suesposte curve di risposta, in unità di misura assolute, cioè confrontabili ovunque).

Per evitare questi inconvenienti si dovrebbe innanzitutto disporre di un rivelatore ideale, atto cioè a rivelare le radiazioni di tutte le lunghezze d’onda nell’ambito di uno spettro il più vasto che sia possibile e con uguale sensibilità ad ognuna di esse, ed una correlata sorgente spettrofotometrica campione che serva per effettuare la sua calibrazione assoluta, atta cioè ad emettere tutte le lunghezze d’onda dello spettro coperto dalla sensibilità del rivelatore con intensità uguale, costante nel tempo e perfettamente nota.

Questo rivelatore e questa sorgente campione dovrebbero avere cioè una risposta costante, ovvero una funzione di trasferimento piatta delle intensità misurate in funzione delle frequenze. Naturalmente tali dispositivi non esistono, e quindi per ottenere risultati scientificamente significativi non resta che ripiegare sulle tecnologie disponibili correggendo però, per l’obiettività degli stessi risultati, gli errori sistematici che queste tecnologie introducono.

E’ noto che le diverse emulsioni fotografiche hanno tutte una grande sensibilità spettrale dovuta agli alogenuri d’argento, base chimica comune a tutte, nella regione che va dalle più corte lunghezze d’onda, quelle dei raggi X e ultravioletti, fino a quasi 5000 Å, nel blu; considerato poi che il limite inferiore dello spettro trasmesso dall’atmosfera e dagli obiettivi di cristallo si aggira intorno ai 3000 Å, si può dire in pratica che sono tutte assai sensibili nella zona del blu-violetto e ultravioletto. Le emulsioni di puro alogenuro d’argento, che rispondono solo in questa finestra, sono appunto dette "sensibili al blu".

Con l’aggiunta di prodotti chimici diversi agli alogenuri fotografici si ottengono le altre categorie di pellicole, differenti per l’estensione della sensibilità spettrale: le ortocromatiche fino a 5500 Å, nella zona del giallo-verde; le pancromatiche fino a 7000 Å, comprendenti tutta la zona del rosso; le infrarosse coprono le regioni spettrali di lunghezze d’onda maggiori di 7000 Å, alcuni tipi molto diffusi commercialmente fino a circa 9400 Å, altri tipi fin verso i 13000 Å.

Invece i CCD hanno tutti la loro sensibilità massima nella regione intorno agli 8000 Å, che è quella dell’estremo rosso e del vicino infrarosso; generalmente poi oltre i 10000 Å la sensibilità precipita fino a circa 11000 Å, dove giunge al minimo. Essi hanno scarsi risultati anche nel giallo-verde e nel blu-ultravioletto.

Analoghe considerazioni si potrebbero fare riguardo ad altri tipi di sensori da impiegare in questo lavoro, per cui si può concludere in generale che di ogni dispositivo elettronico o materiale sensibile che si intenda usare come rivelatore occorrerà conoscere, oltre alla forma della curva di risposta in funzione dell’intensità luminosa incidente, che di solito il fabbricante fornisce da misure effettuate "in luce bianca", anche la curva spettrofotometrica della sensibilità, vale a dire la risposta del rivelatore alle varie lunghezze d’onda, per poter poi tener conto, nella fase di riduzione dei dati, dell’errore sistematico rappresentato dagli scostamenti della risposta reale rispetto a quella piatta teorica. Alle lunghezze d’onda in cui tale scostamento è nullo la risposta del rivelatore è uguale a quella ideale e quindi queste potranno servire come riferimento.

Nel caso di impiego come rivelatore di pellicola fotografica, anche di tipo sempre uguale, per quanto già detto sulla variabilità delle curve di annerimento fornite dal costruttore in funzione dell’intensità luminosa e della lunghezza d’onda incidente con molteplici fattori, sia ambientali (la temperatura e le altre condizioni di lavoro e il successivo stato di conservazione, compreso il tempo trascorso fino allo sviluppo) sia costruttivi (ogni pezzatura prodotta può differire dalle altre) sia chimici (il trattamento di sviluppo finale), si comprende quanto il suo utilizzo debba essere gravoso, comportando le preliminari esposizioni di taratura ogni volta che si inizia una nuova pellicola o un nuovo pacchetto di lastre.

Qualora si facciano misure singole in poche bande fotometriche, per la taratura si può usare un sensitometro, ossia un apparecchio che espone sulla pellicola una serie di immagini con intensità scalata in modo conosciuto (una serie per ogni banda fotometrica); se invece si vogliono fare misure spettrofotometriche occorre determinare la curva di risposta della pellicola per ogni lunghezza d’onda utile: non c’è infatti ragione di pensare che la risposta della pellicola non vari con la lunghezza d’onda. Bisognerebbe impiegare un sensitometro in grado di esporre più spettri con rapporti di intensità noti per poi ricavare da questi la forma della funzione: annerimento = F(I, l ); la cosa più ovvia a tal proposito è proprio usare il nostro spettrografo per compiere queste esposizioni di taratura, anche perché in questo modo, con una operazione unica, si avrà la risposta globale dell’insieme "rivelatore + spettrografo"; non solo, ma si potranno in tal modo calibrare gli spettri in lunghezza d’onda, esponendo semplicemente uno spettro di confronto generato da una sorgente campione spettrofotometrica (scintilla, arco o altra, comunque da cercare e anche questa di non banale individuazione) nello stesso fotogramma in cui viene registrato il campione spettrale relativo all’inquinamento luminoso. Sarebbe infatti molto più difficile e molto meno utile stimare singolarmente il fattore di assorbimento dello strumento e poi, separatamente, calibrare in modo assoluto il rivelatore, per calcolare infine la risposta globale come combinazione delle due.

Si dovrà poi stabilire un arbitrario livello di riferimento, assunto convenzionalmente come origine degli assi o "zero": sembrerebbe banale porre il problema, visto che una "intensità zero" significa in teoria assenza di radiazione; invece non è poi così banale, se si considera che, per quanto piccola possa essere la minima grandezza misurabile da uno strumento, esisterà sempre una quantità inferiore ad essa, che tale strumento non è in grado di misurare perché situata al di sotto del limite inferiore di sensibilità dello stesso; va pertanto considerato che mentre il range possibile delle intensità luminose esistenti in natura può assumere anche valori infinitesimi (in genere rappresentati più comodamente su scala logaritmica la quale, come noto, estendendosi all’infinito, non porta alcun valore "zero"), l’escursione dei valori misurabili da un generico strumento è assai più limitata della natura e presenta un limite inferiore che può essere adottato come livello di riferimento o "zero".

Sarà quindi logico scegliere tale valore di riferimento in funzione di un aspetto stabile e caratteristico dello stesso fenomeno osservato, che secondo me potrebbe essere la presenza, nel cielo, di una debole e costante luminosità intrinseca comunemente detta "fondo cielo".

LA LUMINOSITÀ DEL CIELO NOTTURNO

Il Cielo notturno, anche dove non si vedono stelle, non è mai completamente buio, come si può facilmente verificare osservando quanto chiaramente si stagli la sagoma di un oggetto oscuro contro di esso: esistono infatti svariati fenomeni, sia di origine atmosferica che extraterrestre, che generano luminescenza, in parte per emissione diretta ed in parte per diffusione; eccone alcuni:

1) La "radiazione del cielo notturno" detta anche "aurora permanente" o "airglow", che è una luminosità permanente dell’alta atmosfera, e si manifesta attraverso una quarantina di righe spettrali di emissione ed alcune bande di origine molecolare molto analoghe a quelle presentate dalle aurore polari (figura 4); tra le più intense si può citare quella a 10400 Å nell’infrarosso, dovuta all’azoto, il doppietto giallo del sodio a 5890 e 5896 Å, come pure quelle a 6300 e 6364 Å, nel rosso, e a 5577 Å, nel verde, dovute all’ossigeno atomico, e la riga ultravioletta Lyman-alfa a 1216 Å dovuta all’idrogeno, non percepibile dal suolo a causa dell’assorbimento atmosferico, ma registrabile da razzi in orbita o palloni sonda in alta quota. Sono tutte lunghezze d’onda che molecole ed atomi dell’alta atmosfera riemettono spontaneamente dopo aver assorbito l’energia del Sole durante il giorno; nell’ambito del visibile la più intensa, che merita tra le tante di essere citata, è certamente la 5577 Å [O.I], che si dice "proibita" perché non è riproducibile in laboratorio alle normali condizioni di temperatura e pressione presenti sulla Terra, mentre nello spazio è prodotta spontaneamente dall’ossigeno neutro, che a causa delle particolari condizioni fisiche ivi presenti, vi si trova in forma di atomi isolati, e non di molecole biatomiche.

2) La "luce crepuscolare" dovuta a fluorescenza di atomi e molecole dell’alta atmosfera direttamente eccitata dalla luce solare;

3) La "luce zodiacale", fenomeno di diffusione e riflessione di luce bianca solare polarizzata ad opera di particelle sospese in orbita nel Sistema Solare;

4) L’ "arco aurorale monocromatico", dovuto alle righe rosse 6300-6364 Å dell’ossigeno e attribuito a scambi di particelle tra le due "cinture di Van Allen";

5) Il "Gegenschein" o "luce dell’opposizione", generato, secondo la teoria di Brandt e Shklovsky, dai fenomeni della "Geochioma" e della "Geocoda", costituite da una gigantesca nube di idrogeno e polvere cosmica attorno alla Terra, grazie alla dissociazione delle molecole atmosferiche di vapore acqueo e metano operata dai raggi solari; fenomeno emittente una tenue luminescenza per l’eccitazione provocata dal vento solare e dalla pressione di radiazione proprio nella direzione della Geocoda, sempre opposta a quella del Sole; a conferma di questa ipotesi sono state registrate da razzi "Aerobee" righe proprie dello spettro dell’idrogeno nella luce diffusa del cielo notturno (Lyman-alfa a 1216 Å).

Questi fenomeni, ognuno in misura diversa, contribuiscono alla luminosità propria globale del fondo cielo, che si stima almeno cento volte la minima brillanza percepibile dall’occhio, come quella prodotta da una lampada di 50 candele su uno schermo distante 400 metri.

Relativamente alla brillanza di origine atmosferica generata in uno strato sottile di aria alla quota h sul livello del mare, esiste in letteratura anche un algoritmo che prende il nome dallo studioso Van Rhijn, con il quale è possibile ricavare per ogni sito, nota la luminosità intrinseca I0 dello zenit, quella I(z) di un punto qualsiasi del cielo distante un angolo z da esso:

dove: z = angolo zenitale, compreso tra lo zenit ed il punto considerato;

a = raggio terrestre;

h = altezza del sito sul livello del mare, ovvero dello strato sottile di aria.

Naturalmente i contributi naturali alla luminosità del cielo notturno non devono essere letti dal nostro strumento campionatore, che invece ha il compito di controllare l’entità dell’inquinamento luminoso, cioè del solo contributo artificiale, di molto superiore a quelli naturali.

Perciò ogni strumento preposto alla registrazione di campioni delle intensità luminose o radianti in arrivo su un dato sito dovrà anzitutto leggere come "zero" o limite inferiore dei valori misurati il contributo medio globale della luminosità propria del cielo notturno in assenza di altre luci inquinanti, in quanto riferito ad un fondo cielo sempre presente ed indipendente dall’inquinamento luminoso, e la cui variabilità con la latitudine geografica del sito e con le stagioni risulta di entità trascurabile nei confronti della radiazione disturbante da misurare.

Nella campionatura spettrale il fondo cielo dovrà pertanto produrre sulla emulsione fotosensibile, ad una lunghezza d’onda di riferimento, un annerimento impercettibile che corrisponda cioè ad una densità D = 0 sopra il velo totale e, nel caso dei CCD o di altri sensori elettronici, esso dovrà corrispondere, nei registri, ad un valore minimo convenzionale.

FIGURA 4: Spetto della luminosità proveniente dal cielo notturno (in corso di definizione)

UN METODO DI TARATURA SUGGERITO

Il maggiore problema che si presenta a questo punto, in cui si tratta di stabilire un metodo di calibrazione dello strumento utilizzato, è quello di arrivare alla calibrazione assoluta, ossia trasformare le misure, già calibrate, cioè corrette rispetto alle curve di risposta globali in intensità e lunghezza d’onda ma espresse in unità arbitrarie proprie dello strumento, in misure espresse in unità assolute, per poter garantire la confrontabilità dei dati ottenuti da un determinato strumento sia con quelli di altri strumenti analoghi sia con misure di altri ricercatori.

Suggerisco pertanto il seguente metodo, da adottare per effettuare la taratura di uno strumento particolare, preso ad esempio:

1° Passo: Scegliere una lunghezza d’onda di riferimento l 0 con la quale si realizzerà la calibrazione dello strumento, all’interno dell’intervallo spettrale che deve essere esplorato; essa può convenientemente venire identificata secondo uno dei due seguenti criteri:

a) l 0 viene identificata con una l x notevole, che cioè corrisponda, come già indicato prima, a realtà fisiche obiettive di rilievo, per esempio ad una riga intensa, e sia quindi facilmente rintracciabile tra le tante altre righe emesse dai fenomeni responsabili della luce del cielo notturno;

b) l 0 viene identificata con un’altra l x, sempre notevole, stavolta però per via della natura fisica del rivelatore che magari presenta un certo valore noto di sensibilità (a cui può essere comodo fare riferimento) proprio a quella lunghezza d’onda.

E’ evidente allora che nel caso particolare di indagini sulla luce inquinante che si sovrappone a quella naturale proveniente dal cielo notturno, e dovendo poter avere la libertà di prescindere dal tipo di rivelatore utilizzato, conviene adottare il primo dei criteri suesposti, scegliendo la riga più intensa nella finestra spettrale scelta; io inoltre, con riferimento allo spettro della luminosità del cielo notturno nell’ambito del visibile (figura 4), suggerisco di scegliere come l 0 la riga proibita 5577 Å [O.I] dell’ossigeno neutro proprio perché è la riga più intensa della finestra ottica; una tale scelta, infatti, determinando la calibrazione dello strumento, lo porterà a non leggere alcun valore al di sotto di tale intensità, per cui esso non verrà influenzato dalla luce del cielo notturno ma soltanto dall’inquinamento luminoso.

2° Passo: Determinare sperimentalmente con prove successive il tempo di esposizione t0 necessario a quello strumento particolare, filtrato per la sola finestra spettrale di lunghezza d’onda media l 0 ed orientato verso lo zenit in un sito ideale (in pratica il più buio che si riesce a trovare) per produrre sull’emulsione sensibile una densità D=0 sopra il velo totale, o comunque per determinare, nelle misure relative agli altri tipi di sensori, il valore minimo convenzionale, sempre alla sola lunghezza d’onda l 0, tenendo conto poi del fattore di assorbimento del filtro a quella lunghezza d’onda e riducendo di conseguenza il tempo t0 sperimentalmente individuato.

Bisogna a questo punto ammettere che la ricerca, l’individuazione e la scelta di questa riga come lunghezza d’onda l 0 di riferimento assomigliano, come per la pietra filosofale, alla già menzionata ricerca della sorgente spettrofotometrica ideale, che in realtà non esiste. Infatti la brillanza naturale del cielo, come quella di ogni riga del suo spettro, è presumibilmente suscettibile di variazioni con la trasparenza atmosferica, la direzione ed il luogo di osservazione, l’ora della notte e cioè la distanza dal crepuscolo, e l’attività solare del giorno precedente. A noi occorre però un valore pratico, statistico o medio della brillanza alla lunghezza d’onda l 0.

Per la gioia dei più rigorosi dirò allora che si può stabilire, attraverso un campione significativo di molte misure di intensità di tale riga, prese una volta per tutte in vari tempi e luoghi anch’essi scelti a campione secondo criteri statistici che esulano dagli interessi di questa dissertazione, quali siano i più elementari valori attesi o parametri statistici di questa grandezza, e poi di conseguenza scegliere quel valore assoluto convenzionale (e con ciò siamo giunti, per la gioia dei pignoli, alla calibrazione assoluta) che soddisfa le nostre esigenze di misura (ad esempio il più elevato se la varianza supera l’errore sistematico dello strumento, o il valor medio in caso contrario).

3° Passo: Effettuare la raccolta dei campioni esponendo sempre con il tempo t0 così determinato, senza filtri e relativamente allo strumento considerato.

4° Passo: Documentarsi con precisione presso il costruttore sulla funzione di trasferimento F(l ) dell’elemento rivelatore utilizzato (e poi riferirla a l 0, cioè normalizzarla, moltiplicandola per una costante, in modo che Fnorm(l 0) = 1).

5° Passo: Con i valori della Fnorm(l i) normalizzata che corrispondono alle ristrette finestre D l i così scelte in precedenza per approssimarle a regioni spettrali "monocromatiche", correggere i campioni prelevati dallo strumento dividendo il valore del campione I(l i) per la funzione di trasferimento Fnorm(l i).

E’ noto in tal caso che se le misure fossero riportate su una scala logaritmica (per esempio in decibel), anziché dividere il campione I per la risposta F, si dovrebbe sottrarre questa (espressa però in valori logaritmici) al campione I.

 

Un particolare ringraziamento va al chiarissimo Prof. Salvatore Cristaldi, dell’Osservatorio Astrofisico di Catania, per la sostanziale opera di revisione critica del lavoro e al Dr. Pierantonio Cinzano dell'Osservatorio Astronomico di Padova per i preziosi suggerimenti e spunti di riflessione offertimi.